Come entrare in meditazione profonda: Vipassana

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 La parola Vipassana significa “meditazione profonda”, ma è anche uno stato meditativo.

Certe volte ci accorgiamo che siamo in uno stato di assorbimento molto profondo e molto ricettivo, e allora come fare ad andare in profondità in meditazione?

Anzitutto, se vogliamo scavare per andare a fondo, dobbiamo necessariamente scavare una buca in superficie; e quindi dobbiamo smettere di distrarci, e focalizzarci, ad esempio sul respiro.

Quindi, la prima cosa che faccio è focalizzarmi sul respiro, in modo da cominciare ad entrare in uno stato meditativo.

Diciamo che, in questo modo, io sto scavando la superficie.

Talvolta mi fermo lì, perché la mia mente è particolarmente distratta quel giorno – capita a tutti, pure ai grandi meditanti (magari a quelli grandissimi no, ma a uno come me a volte capita).

E quindi, certi giorni, abbiamo bisogno di rimanere lì; ci distraiamo e cerchiamo di tornare al respiro, magari vorremmo raggiungere una maggiore profondità ma ci accorgiamo che tendiamo a distrarci lo stesso, e quindi, di fatto, rimaniamo in superficie.

Tuttavia, già l’intenzione di andare più in profondità ci permette di vedere se possiamo andare ancora un po’ più avanti, ed allora, quasi spontaneamente, dopo esserci focalizzati sul respiro ecco che la nostra attenzione comincia ad aprirsi e siamo più ricettivi.

Cominciamo ad accorgerci di tante cose contemporaneamente.

Non c’è più soltanto una cosa all’attenzione della nostra mente – come il respiro – ma percepiamo tante cose tutte assieme: le sensazioni della pelle scoperta, l’aria fresca, sentiamo dei suoni, avvertiamo la sensazione della sedia sotto il sedere; sentiamo tante cose, siamo consapevole di ciascuno di questi stimoli senza che uno prenda il sopravvento ed emerga in superficie.

Certe volte, tuttavia, una sensazione può emergere.

Sale un pensiero: io ne sono consapevole e, se rimango ricettivo e non mi faccio trascinare dal pensiero, ecco che posso osservarlo come in un caleidoscopio che sta manifestando – rispetto ai tanti stimoli di cui sono più o meno consapevole – una cosa un po’ più specifica.

Io però, rimanendo in quella posizione di attenzione, lo noto; però non mi faccio distrarre da quel pensiero – o magari mi distraggo per un attimo ma recupero subito la mia capacità di osservazione – e testimonio come mi fa stare e cosa mi dice questo pensiero.

Non lo inseguo e non lo caccio nemmeno: questo pensiero sta lì e io lo osservo, e qualche cosa mi dice.

Posso osservare che le mie reazioni corporee sono cambiate; magari mi sto agitando, magari mi accorgo che in corrispondenza di quel pensiero c’è brama, magari c’è voglia di alzarmi perché quel pensiero mi sta dicendo “Che ci fai seduto lì in meditazione, vai a cucinare!”

E quindi mi accorgo di questa mente grossolana che vorrebbe farmi smettere di meditare, e che già ha creato in me una certa tensione muscolare e una certa agitazione; però ecco che, rimanendo nella posizione dell’osservatore, questo pensiero che voleva trascinarmi via, una volta osservato, si fa piccolo e ritorna nello sfondo.

E di nuovo, magari, può emergere un’altra distrazione.

Un suono: un suono mi sta distraendo, e cosa mi dice questo suono?

Perché sto andando a “disturbare un rumore”? come diceva Ajahn Chah: il maestro del maestro del mio maestro.

“Non andare fuori a disturbare il rumore”, diceva, e questo cambia completamente la prospettiva; prima mi dicevo “Questa cosa mi distrae”, come se la colpa fosse di qualcosa all’esterno, invece sono io che mi faccio agganciare da questa cosa.

E perché mi sono fatto agganciare?

Quando c’è questa indagine ho di nuovo la possibilità di essere protagonista, quindi non mi faccio più agganciare e mi accorgo del meccanismo.

E quando mi accorgo del meccanismo, capisco di più come funziono nel mondo, come mi faccio agganciare e cos’è che riesce a farsi agganciare di più.

E così facendo vado sempre più in profondità, capisco cose sempre più sottili di me e, via via, mi faccio agganciare da cose sempre meno grossolane.

Poi qualche volta non ci riesco, perché sono più distratto, e sono le cose più grossolane ad avere la meglio; ma è questo il bello della meditazione di visione profonda: è come andare in una cipolla, fatta a strati, in cui qualche giorno riesco ad andare in uno strato molto più profondo e altri giorni rimango più in superficie.

Ma soltanto il fatto di mettermi in ascolto, e di aprirmi alla possibilità di andare più in profondità, mi permette di sviluppare una certa comprensione di quello che sta avvenendo dentro di me.

E poi ci sono delle volte, in cui siamo totalmente assorbiti dallo stato meditativo, che non c’è più una cosa che emerge rispetto ad un’altra; siamo totalmente aperti e ricettivi, vuoti.

Un vuoto che accoglie, che permette alle cose di manifestarsi; un vuoto amorevole, uno stato di grazia molto piacevole da vivere.

Ma per viverlo abbiamo bisogno di non attaccarci a questo risultato.

Vivere questo stato molto piacevole non significa che quella è una meditazione venuta bene e che rimanere in uno stato più superficiale significa che la meditazione è venuta male, assolutamente no.

Anzi, spesso, l’insight e la comprensione profonda dei miei aspetti più celati, emergono proprio grazie al fatto che mi accorgo di alcune modalità con cui io sto al mondo.

E me ne accorgo, magari, proprio perché per un attimo mi ha distratto quel pensiero o sono stato richiamato da quel suono, e sono successe in me delle cose, e io le ho osservate, e ho potuto rendermi conto di come funziono nel mondo.

Magari ho collegato tra loro alcune cose, mettendo in connessione dei fatti con dei ricordi, e ho collegato un richiamo con degli episodi del passato; non è che sono stato lì a indagare: la consapevolezza è emersa da sola, le cose si sono connesse istintivamente.

E allora, wow, adesso ho capito perché, ogni volta che un cane abbaia, mi succede questa cosa.

Si tratta di un vissuto, non di una mera comprensione intellettuale.

Non è che vado a cercare il perché di una cosa, mi vivo il “come”: il come io sto al mondo.

Quindi, c’è il suono di questo animale che abbaia e già ho associato il suono a un’idea: l’animale che abbaia; si tratta di una idea astratta, perché io non lo sto vedendo davvero il cane, lo sto associando ad un cane che ho conosciuto nel passato.

E già vedere tutti questi meccanismi mi permette di andare sempre più in profondità, come vedi.

Posso riconoscere che sto mettendo un’etichetta, per esempio, e che quella etichetta appartiene al passato; e quindi raffino, e vado in profondità anche sotto questo aspetto.

Mi accorgo di tutti i meccanismi che si instaurano: sento un suono, quel suono è diventato un rumore e quindi gli ho già dato una qualità, e di tipo negativo.

Che cosa è successo in me che ha subito trasformato in suono in rumore?

In mezzo c’è tanta roba.

Tutta roba che – piano piano, meditazione dopo meditazione – posso sempre più raffinare, andando sempre più in profondità.

Ma, lo ripeto, non è necessariamente uno stato di assorbimento profondo che rende quella meditazione migliore di un’altra che, invece, mi ha offerto delle comprensioni grazie al fatto che una cosa mi ha distratto e poi ho associato quella cosa con un’altra ancora.

Fa tutto parte di un percorso.

Noi siamo al mondo per fare un percorso, e la meditazione ci aiuta a farlo meglio; ad avere gli occhi più aperti, per essere più consapevoli e più protagonisti di quello che ci succede mentre viviamo.

Ed ecco quindi come fare ad andare più in profondità.

Il primo passo è quello di accettare di fare, per prima cosa, un lavoro di superficie.

Di focalizzarci, all’inizio, e di non distrarci; e poi di aprirci, rimanendo curiosi e accogliendo quello che si sta manifestando, senza cercare di filtrare alcunché, ma accogliendo tutto, anche quello che non ci piacerebbe.

Non è che sto lì, a meditare, e mi dico: “Non voglio pensieri”; no: i pensieri sorgono e diventano oggetto di meditazione e di consapevolezza.

Così vado in profondità, e capisco come sto al mondo.

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